lunedì 19 marzo 2007

Il vero crimine è il politicamente corretto


La cronaca tranese, nelle prime settimane di marzo, ha registrato due avvenimenti apparentemente remotissimi tra loro, in realtà con dei punti di contatto abbastanza inquietanti. Il primo è il brutale assassinio di Aldomiro Gomez, un “viado” brasiliano di 57 anni, ritrovato nella sua auto con la testa fracassata; il secondo è la presentazione del libro “Boccamurata” della scrittrice anglo-sicula Simonetta Agnello Hornby (vedi foto a lato) presso la rinomata libreria La Maria del porto.

Cosa possono avere in comune due eventi tanto distanti? Prima di tutto, il sesso estremo, nelle sue forme più deviate (vedremo tra breve quale sia l’argomento di “Boccamurata”); in secondo luogo l’atteggiamento ormai apertamente apologetico della stampa e dei media quando si affrontano tali argomenti.

Cominciamo dall’omicidio del povero Aldomiro Gomez, nome d’arte “Tatiana”. Il giornale (Bombonotizie) ha avanzato due ipotesi. La prima, più ovvia, punta a un delitto maturato nell’ambiente degli omosessuali (su questa espressione ritorneremo subito). La seconda chiama in causa un branco di teppisti, denunciati dal Gomez pochi giorni prima di morire perché lo tormentavano e lo molestavano a causa della sua “diversità” (riporto le virgolette “politically correct” che nell’articolo compaiono immancabilmente). In quest’ultimo caso si sarebbe trattato di una vendetta del branco contro il Gomez, reo di essersi ribellato alle sue prepotenze.

A questo proposito, il titolo dell’articolo relativo al delitto coglie, forse involontariamente, un nesso che era già stato intuito dal sindaco di New York Rudolph Giuliani quando aveva cominciato a sbattere in galera i vandali e i “graffitari”. La conseguenza inattesa, ma non illogica, era stata la vistosa diminuzione degli omicidi e dei crimini violenti in città.

Il titolo recita infatti: NON PIU’ ATTI VANDALICI – ADESSO SI TORNA A UCCIDERE. Il riferimento è a precedenti, gravi episodi di teppismo avvenuti nei mesi scorsi (i leoni di pietra della Cattedrale semidistrutti a colpi di spranga, le giostrine devastate, le aiuole calpestate). Tutti segni premonitori di un’abitudine alla violenza e alla prevaricazione che, rimasta impunita, non ha difficoltà a esplodere poi nel delitto. In Italia, anziché fronteggiare il male a viso aperto, si è scelta la strada della resa e della rassegnazione, magari mascherandola da “dialogo”. L’indulto insegna, i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Ma torniamo al caso Gomez. Parlare di delitto “maturato nell’ambiente degli omosessuali” sembra voler spiegare tutto, come se in tale ambiente l’omicidio e la violenza fossero più scontati che altrove, dunque implicitamente più scusabili. A questo punto dovrebbero venirci in aiuto le statistiche, che purtroppo non ho e non so come procurarmi. Devo quindi procedere per congetture. Il primo dato da considerare dovrebbe essere, logicamente, l’incidenza dei delitti e delle violenze in ambito omo o transessuale in rapporto alle persone che vivono questa condizione. Dato di per sé quasi impossibile da determinare, perché solo una piccola minoranza di queste preferiscono venire alla luce, checché se ne dica a proposito dell’”outing”. Bisognerebbe poi confrontare questa percentuale in rapporto ai delitti e alle violenze in ambito eterosessuale, comprese le mura domestiche (dati questi ultimi molto più facili da determinare). Se risultasse che l’incidenza percentuale fosse più alta nella popolazione omo o trans, allora si avrebbe ragione a parlare di uno specifico, pericoloso “ambiente”, altrimenti no.

C’è un mezzo semplicissimo, tuttavia, per porre fine alla ridda delle ipotesi almeno nel caso Gomez. La polizia ha senz’altro i mezzi per accertare se l’aggressione sia stata compiuta da uno o più persone. E mentre scrivo è più che probabile che la scientifica sia giunta a conclusioni definitive. Lo stesso articolista, a dire il vero, concede poco credito all’ipotesi di una vendetta di teppisti, e propende per il delitto omosessuale. Ma implicitamente ne accusa la “società”, rea di aver colpevolizzato il Gomez per la sua “diversità” (sempre tra virgolette!).

Ma è giusto? Possiamo accettare di farci colpevolizzare? Siamo proprio sicuri che quella diversità (senza virgolette, stavolta) debba essere accettata a occhi chiusi? Che io sappia (non sono un esperto, ovviamente…) i trans hanno un numero estremamente alto di partners casuali, di gran lunga superiore a qualsiasi individuo “etero”, uomo o donna. In tanta promiscuità, il rischio d’incontrare il “mostro” o lo psicopatico può essere proporzionalmente più alto che per le stesse prostitute. Proprio questa precarietà, che finisce sistematicamente nell’uso e nell’abbandono reciproco, rende intrinsecamente violenti i rapporti di questo tipo. Dove non c’è garanzia, né fiducia, né voglia di stabilità, è chiaro che i risentimenti e le frustrazioni possono esplodere con la massima violenza, anche per i più futili motivi.

Detto questo, possiamo sbrigativamente liquidare quest’omicidio come se appartenesse a un “milieu” che possiamo guardare con distacco, dall’alto della nostra certezza di non esserne mai contaminati? Al contrario. Confesso di aver provato una grande pietà per la morte squallida e atroce di questo trans, ormai alle soglie della vecchiaia. Ho detto per lui un “Eterno riposo” perché tra non molto tutti l’avranno dimenticato, in primis quelli che l’avranno usato, o che saranno stati usati da lui, per una sera o per poche ore soltanto.

La mia pietà però non va alla sua diversità, che l’ha portato, se mai, a una vita probabilmente depressa e triste, sempre spasmodicamente protesa a una felicità che in uno stato di vita come il suo era impossibile raggiungere. La mia pietà va all’uomo (sì, all’uomo, non al travestito, non alla marionetta!) nel momento in cui ha sofferto ed è morto. Non lo compatisco per quello che aveva di diverso ma per la sofferenza e il dolore che me lo hanno reso vicino. Mi chiedo se in quegli attimi di orrore si sarà reso conto di aver gettato la sua vita nel cestino. Una vita che forse poteva essere ben “diversa”, e stavolta diversa nel senso più giusto.

Ne dubito, però. Sia perché in momenti come quelli non c’è nemmeno il tempo di pentirsi, sia perché l’ambiente, la società, i media benpensanti fanno ormai in modo che non sia nemmeno più pensabile mettere in discussione certe “scelte di vita”, a nessuno deve essere consentito domandare se certe scelte siano giuste o no, distruttive o no. E’ l’utopia del “sane, safe and consensual”, come dicono gli americani. I costi di un piacere cercato soltanto per se stessi devono essere a carico di tutta la società.

Veniamo adesso al secondo episodio, avvenuto più o meno contemporaneamente. Il contesto non potrebbe essere più diverso. Là una stradina solitaria, un appuntamento furtivo e frettoloso, un poveraccio di mezz’età che si trascina dietro le proprie chimere; qui l’ambiente distinto e colto di una libreria, un pubblico gentile e attento, una donna intelligente, di successo, che ha viaggiato molto, sicura di sé e delle sue competenze, che si gode sorridendo le luci della ribalta.

Eppure l’argomento, il “subject-matter” del libro, è, se possibile, ancora più ributtante del delitto Gomez: l’incesto, e peggio ancora la sua giustificazione. Leggiamo infatti dalla presentazione, sempre a cura di “Bombonotizie”: “Scopo dichiarato dell’autrice… è quello di sfatare i tabù che di volta in volta segnano un’epoca o una storia”. Il bersaglio, ovviamente, è sempre lo stesso, attaccato con monotona regolarità da tutti quelli che si credono innovatori: “Sotto accusa è la famiglia, in questo caso una famiglia della Sicilia moderna, colta e ricca, che, sotto l’apparente normalità, si rivela covo di sentimenti innominabili, segreti inconfessabili, passioni impetuose e amori proibiti, il cui fil rouge è rappresentato dal possesso della roba”.

A stendere quest’atto di accusa è un’avvocatessa, nonché giudice minorile, “specializzata e affermata nelle cause su abusi dei diritti di donne e minori”. Non so quale sia la sua posizione su questi casi, ma non mi stupirei se fosse uno di quegli avvocati-avvoltoio, specializzati nello sfascio delle famiglie e soprattutto nella distruzione della figura maschile e paterna, una razza descritta con impressionante nitidezza da Claudio Risé nel suo libro “Il padre – l’assente inaccettabile”.

La trama, ridotta all’osso, è questa: Tito, un ricco industriale siciliano, capo della classica famiglia patriarcale, scopre di essere nato dal rapporto incestuoso tra suo padre e la sorella di lui, la vecchia Zia Rachele. Come se non bastasse, Tito viene a scoprire il segreto della sua nascita da Dante, l’amante omosessuale di suo figlio Santi. Tutto questo fa saltare in aria qualsiasi idea di famiglia "normale". Qual è l’effetto della scoperta su Tito? In altre epoche sarebbe stato sgomento, orrore, vergogna. Qui lo shock è certamente forte, ma non annienta Tito, bensì, al contrario, “suscita la sua rinascita”.

Ma di quale “rinascita” si può trattare? Direi che ha due aspetti, uno soggettivo e uno oggettivo. Il primo è il rifiuto del marchio d’infamia e della vergogna che di solito si accompagnano a scoperte del genere. Dal momento che nessuno può scegliersi lo stato di vita in cui nascere, questo rifiuto di accollarsi la colpa può sembrare a prima vista giustificato. Ma c’è una seconda implicazione, più sottile e per così dire “oggettiva”, che mira esplicitamente a giustificare l’incesto in quanto tale, fin quasi a dargli pubblica dignità, nel momento stesso in cui si accusa e si svilisce la famiglia. Che importa se a far nascere Tito sia stato un rapporto tra fratello e sorella? L’importante è che abbia avuto le cure e l’affetto di cui aveva bisogno. Zia Rachele ha saputo non solo fargli da madre, ma essergli madre; allora il tabù non sarebbe altro che una convenzione bigotta, messa in giro dai preti per tenere in soggezione le donne e gli immancabili “diversi”.

Di fronte a tanta apertura culturale, noi italiani che ancora ci dibattiamo alle prese coi DI.CO. facciamo la figura dei provinciali senza speranza. L’Inghilterra è silenziosamente entrata, e da tempo, in una combinazione tra i peggiori incubi totalitari di George Orwell e quelli eugenetici di Aldous Huxley. Una Sodoma che trova “normale” la segregazione alla rovescia a favore degli omosessuali (gli “etero” non vengono ormai ammessi in alcuni alberghi abitualmente frequentati dai gay), in cui si sta per dare il via libera alla creazione di ibridi uomo-animale, dove i matrimoni sono scesi al minimo storico da centoundici anni, dove si legalizzano le adozioni gay e dove siamo ai primi posti mondiali per delinquenza e alcoolismo giovanile, che scrupolo volete che si faccia di fronte a un rapporto incestuoso?

Ma se gli inglesi chiudono tranquillamente gli occhi davanti a tutto questo (in nome della solita “tolleranza” che vieta di fare domande) noi poveri provincialotti qualche domanda ce la poniamo lo stesso, se non altro grazie alla nostra rozzezza.

Chiediamoci prima di tutto: chi l’ha detto che l’incesto sia solo “uno dei tanti” tabù che “di volta in volta” hanno segnato un’epoca o una storia, quasi che fosse possibile cambiarli e superarli a piacimento? Se c’è una proibizione più costante, più tenace, più universalmente sentita da tutti i popoli, da tutte le culture e in tutti i tempi è proprio quella dell’incesto.

Non tanto, e non solo, per la paura dei danni che possono derivare dall’”inbreeding”, ma per un orrore ancora più profondo che nessun sofisma può demolire: la vita è movimento, apertura all’altro, fluire di generazioni che passano le consegne a quelle successive. Nell’incesto si commette violenza contro la vita sia "incartandola" nel rapporto endogamico tra fratelli, sia addirittura tornando indietro come nel rapporto genitori/figli. Perché Edipo si acceca e Giocasta si uccide, pur essendo assolutamente inconsapevoli di essere madre e figlio, nel momento in cui si univano in matrimonio?

Nell’Edipo Re, in verità, si tocca uno dei vertici della tragedia umana: perché l’uomo sia colpevole di un destino che non avrebbe potuto evitare in nessun modo, e debba ugualmente espiarlo. Quel che faceva inorridire i Greci non era infatti la colpa soggettiva ma la violazione di un ordine oggettivo (Edipo non è un malvagio ma uno sventurato). Alla base della tragedia vi è l’uccisione del Padre e la profanazione del suo talamo. Sono andati distrutti sia il rispetto verso il Padre che la distanza, anch’essa piena di rispetto, nei confronti della Madre.

La vita, anziché scorrere verso le nuove generazioni, è tornata indietro, si è ripiegata su se stessa. La pestilenza che cade su Tebe non è solo il castigo esterno degli dei, ma il segno di questa vita corrotta e bloccata. Quello che Edipo e Giocasta hanno generato è solo vita apparente, destinata a distruggersi (Eteocle e Polinice) o a perire di morte violenta (Antigone), perché una volta ucciso il Padre nessuno è più in grado di essere veramente padre.

Tutto ciò, ne sono certo, non turba né interessa minimamente la Aniello Hornby. Quello che conta, per lei e per la cultura cui appartiene, sono solo i sentimenti soggettivi: se uno “accetta” la propria condizione e ci si trova bene, perché no? Se non c’è un ordine dato fuori di noi da rispettare, certo che il tabù dell’incesto è solo un sopruso e un inutile senso di colpa! Anzi il sopruso più grande è il matrimonio, perché fissa i ruoli, vincola le volontà, non permette di andare oltre un limite certo nei rapporti tra consanguinei.

Nell’ideologia della Hornby non è “l’ipocrisia” della famiglia a essere messa sotto accusa, ma la famiglia in quanto tale. Confesso che avrei un po’ di perplessità, anche a livello personale, verso chi “si trova perfettamente a suo agio nel raccontare le vicende familiari più torbide”. Nemmeno l’ombra di un dubbio, il sussulto di un minimo disagio? A nessuna domanda è permesso di venire a importunare la coscienza?

Probabilmente cercheremo invano tutto questo. C’è soltanto la figura “impassibile e distante” della Zia Rachele, la madre incestuosa di Tito. La recensione di “Bombonotizie” non dice nulla sui motivi che l’hanno portata all’incesto con il fratello Gaspare. Ma è facile escludere che il distacco e l’impassibilità di Rachele siano dovuti a rimorso per quello che è avvenuto (e che lei, a differenza di Tito, avrà voluto consapevolmente). Sarà probabilmente un senso di superiorità intellettuale (lei, nonostante l’età, è ancora “lucida e vivace”), una commiserazione sprezzante per chi ancora è rimasto ancorato a certi “tabù”. Forse la Zia Rachele è un autoritratto spirituale dell’autrice, donna colta e ormai definitivamente emancipata, al di sopra della massa ignorante.

Il libro si chiude su una nota di speranza, dice la recensione. Speranza in chi, in cosa? Soltanto in se stessi, presumibilmente. E’ vero che i figli non devono pagare per le colpe dei padri, ma è altrettanto vero che ogni generazione è responsabile dei figli che metterà al mondo, e che l’incesto distrugge l’idea stessa di paternità. Ma per una mentalità come quella cui appartiene la Hornby il vero tabù è interrogarsi sul significato e le conseguenze delle proprie azioni. Non basta portare alla luce e pubblicizzare un atto intrinsecamente cattivo perché diventi socialmente accettabile.

Dispiace dover dedicare tanto tempo ed energie a temi prima confinati nella sfera dell’intimo, più ancora che del privato. Il fatto è che il concetto stesso di persona è diventato pubblico, negoziabile. Quanto più si rivendica la privatizzazione selvaggia delle scelte familiari e sessuali tanto più si cerca d’imporle per legge, distruggendo gli istituti giuridici esistenti e creandone altri. Più si cerca di appartenere soltanto a se stessi, più si chiama in soccorso la mano pubblica. Si creano così esseri soli, atomizzati, dipendenti in tutto e per tutto dai meccanismi impersonali della burocrazia (basti vedere quanto è burocratica la proceduta per mettere in piedi un DI.CO.).

Il profondo fil rouge che lega l’assassinio di Aldomiro Gomez e il libro di Simonetta Agnello Hornby non sta soltanto nell’arbitrario stravolgimento della sessualità umana, ma soprattutto nell’atteggiamento chiaramente apologetico della stampa nei loro confronti. E se questa è la stampa locale, figuriamoci quella nazionale! I comportamenti e le “scelte” (anzi, si preferisce la parola neutra “orientamenti”) diventano insindacabili, dei dogmi assoluti, e guai a chi li mette in discussione.

Inutile dilungarsi sulle conseguenze, anche se va osservato che tutte puntano alla soppressione e all’impoverimento della vita umana. L’unica differenza, se mai, è che Aldomiro Gomez ha pagato di persona, mentre la Agnello Hornby probabilmente continuerà ancora per molti anni a incassare lauti profitti per quello che scrive, e per le famiglie che, come avvocato, contribuisce con tanto zelo a sfasciare.

Giovanni Romano

Nessun commento: