sabato 16 dicembre 2006

Ma per Welby non provo compassione

Ho letto su "Avvenire" delle lettere che esprimevano, nobilmente, comprensione e solidarietà con i sentimenti di Welby, anche se non per la sua disperata scelta di morire. In molti hanno scritto che in realtà il suo cercare caparbiamente la morte conteneva una “richiesta di aiuto”.

Probabilmente sarò degno dell’inferno, e farò una fine peggiore della sua, ma ho guardato nei suoi occhi, e non vi ho letto richieste di aiuto a vivere, bensì rabbia, rancore, aggressività impotente, più o meno come un suicida che prende a pugni chi vuole impedirgli di buttarsi giù.

Non provo quindi nessuna “comprensione” per questa grottesca corsa contro la morte, quasi una gara a chi arriva primo. Perché tanta fretta di farsi ammazzare, se le condizioni stanno comunque peggiorando? Per affermare il principio che a lui, e solo a lui, spetta il momento di decidere quando vivere e quando morire. E’ la rottura alla radice di qualsiasi rapporto umano, perché gli altri diventano solo passivi esecutori della volontà di morire, anziché presenze che possono aiutare e condividere anche un momento doloroso come quello della morte.

Devo anzi confessare di provare io rancore verso Welby, che strepita le sue rivendicazioni di morte proprio nei giorni in cui Cristo nasce e viene a dare speranza agli uomini con la Sua vita (il che include anche il Suo sacrificio, che da quel momento in poi non ha reso inutile il dolore). Il suo atteggiamento, che ne sia consapevole o meno, è quello di un anticristo. Grazie a lui passerò uno dei Natali più tristi e inquieti della mia vita, per paura di quel che avverrà dopo che gli daranno inevitabilmente ragione (prova a opporti all'ondata mediatica!): sarà aperta la strada all’eutanasia, fino a renderla obbligatoria per quelle che saranno giudicate (da chi?) “vite a perdere”.

Già pochi giorni dopo lo scoppio del caso Welby, dalla Campania un’anziana madre tutta in lacrime chiedeva la “dolce morte” per i suoi due figli gravemente ritardati che lasciava dietro di sé. Che si pensi tanto facilmente a togliere di mezzo la vita (e per giunta disporre di quella altrui) anziché averne cura lo dovremo a Welby e suo al corteo di becchini. Possa Dio confonderli e dannarli!

E di fronte alle “veglie” blasfeme che chiedono la morte, la Chiesa dovrebbe avere il coraggio di mobilitarsi per organizzare veglie di preghiera e scongiurare il dilagare della menzogna e del delirio di morte che ci ha preso. In pochi giorni è stato disfatto –con lucida determinazione- tutto il risultato del referendum sulla legge 40.

Ci sono due ulteriori considerazioni da fare. Primo, a nesuno è venuto in mente che la "sedazione terminale" invocata da Welby somiglia molto all'iniezione letale praticata sui condannati a morte negli USA. E nei giorni scorsi uno di loro ci ha messo trenta minuti di agonia atroce, per morire, tanto che è stato necessario ripetere la dose mortale. Niente garantisce che la morte di Welby, né di alcun altro nelle sue condizioni, sia "dolce" e "indolore".

Non lo fu nemmeno per Ramon Sampedro, l'idealizzato protagonista del film "il mare dentro". Le rivelazioni della donna che lo aiutò a morire, che si è decisa a parlare solo dopo che il suo reato è caduto in prescrizione, ci hanno fatto sapere che Sampedro non morì fulminato dal cianuro, ma agonizzò per circa un quarto d'ora, con rantoli tanto spaventosi che lei si chiuse terrorizzata nel bagno. Ci scandalizziamo per la morte atroce di un criminale, accettiamo tranquillamente che Welby rischi di fare la stessa fine. Ma sappiamo ragionare o no?

Secondo: a mio parere, la Chiesa ha sbagliato quando ha concesso ai suicidi la sepoltura in terra consacrata. Non che questo importi qualcosa a Welby & C., ma era un segno forte, non buonista, che ammoniva l’uomo sulla gravità del suo gesto e sull’eternità del suo destino.

Grazie, Welby, per aver rubato un po' di voglia di vivere a chi sta lottando in condizioni difficili come le tue. Grazie per averci oscurato e reso triste il Natale, grazie infine per aver allontanato un po' di più gli esseri umani gli uni dagli altri.

Con profonda avversione,

Giovanni Romano

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