giovedì 23 agosto 2007

I tarli del Family Day


Dopo il Family Day molti commentatori di parte cattolica hanno inneggiato -secondo me prematuramente- al "ritorno della famiglia", alla "nuova centralità del soggetto famiglia nella scena politica", e altre banalità del genere. A parte il fatto che dalla conferenza di Firenze non è venuto alcun risultato concreto, quel che mi preoccupa è che anche all'interno della Chiesa qualcuno sta muovendo una lotta sorda alla famiglia.

Ne ho avuto la prova poco tempo fa, a metà luglio, quando ho ricevuto l'invito a un convegno organizzato dagli immancabili "cristiani in dialogo" della mia diocesi, e la relativa brochure. Per una coincidenza d'impegni improvvisa e sommamente inopportuna non ho potuto assistervi, ma il materiale che avevo ricevuto era più che sufficiente per farmi pensare tutto il male possibile dell'iniziativa. Chiedo scusa ai miei inesistenti lettori se non posso riportarlo qui (ne ho fatto comunque le copie in formato .jpg), ma ho voluto commentarlo molto a fondo con il responsabile dei servizi di comunicazione sociale della mia diocesi, citando tutti i punti significativi di questi documenti nella mia replica.

Buona lettura, se verrete. E quelli che parlano di "ritorno della famiglia", purtroppo, non esultino troppo presto...

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Caro Amico,

sono certo che, a poche ore dal convegno diocesano, non avrai nemmeno il tempo di leggere quello che segue. Tuttavia devo scrivere lo stesso, per l’urgenza e la gravità dell’argomento. Cercherò di stringere.

Da quel che ho letto nell’invito e nella brochure dei “cristiani per il dialogo” ho l’impressione che alcuni settori della Chiesa, non potendo contestare frontalmente il Family Day, stanno cercando di”lavorarlo ai fianchi”, minandolo e sminuendolo dall’interno. E’ strano –e anche grave- che quanto più aspri, insidiosi e persino violenti si fanno gli attacchi alla Chiesa, ai pastori e ai semplici fedeli, quanto più si fa esplicita l’apostasia contro il cristianesimo, tanto più tra i cattolici spunta, immancabilmente, chi ammonisce a “non-alzare-steccati”, a “non-chiudersi-nelle –proprie-certezze”, a “evitare-scontri-e-divisioni”, e “dialogare” anche con chi ha fatto del disprezzo e della menzogna i suoi strumenti abituali di comunicazione.

Vorrei ricordare che Nostro Signore, nel Vangelo di Giovanni, ha paragonato Se stesso alla porta di un ovile (Cfr. cap.10), ammonendo i suoi contro i ladri, i briganti, i mercenari e i cattivi pastori. In un certo senso, ha messo… una buona parola per gli steccati! Fuor di metafora, il paragone usato da Gesù ci deve far capire che non tutte le scelte sono ugualmente rispettabili, che non tutti gli ambiti di vita sono ugualmente buoni. Dove c’è la Sua presenza –e quella del popolo cristiano- l’umano può vivere e fiorire, mentre nello spazio di un relativismo pieno di discorsi e vuoto di valori, dove la presenza cristiana è messa al bando o adulterata, l’umano si corrompe e va perso.

Vediamo invece come procedono i “cristiani per il dialogo”. Ho l’impressione che il loro linguaggio risenta di ambiguità molto pesanti, a cominciare dalla gaffe certo involontaria del titolo: “Crisi della famiglia: quale contributo dal Magistero della Chiesa?”. Detto così, sembra che sia il Magistero a dare un sostanzioso contributo alla crisi… Ma queste sono amenità, il brutto viene subito dopo, quando si mette ingiustamente sullo stesso piano chi non ha lesinato ai cattolici le ingiurie più volgari e le minacce più pesanti, e chi ha difeso in modo fermo e pacato una realtà umana e naturale come la famiglia. Quasi come se l’atteggiamento del Papa e della CEI fosse un accanimento retrogrado, cocciuto e immotivato, un arbitrario esercizio di potere spirituale (come insinua il Card. Martini nella brochure, discorso del 16 marzo 2007). Non si potrebbe falsificare il Magistero più di così. Naturalmente i “cristiani in dialogo” non hanno sentito nemmeno parlare di punti “non negoziabili” quali la vita, la famiglia e la libertà di educazione. Già, quando si è sempre “in dialogo” tutto diventa provvisorio e disponibile.

Si parla dei “problemi complessi della famiglia reale”. Chiedo scusa: da quanto in qua la Chiesa ha avuto in mente una famiglia immaginaria? Problemi complessi certo, ma dobbiamo stare attenti a non renderli confusi. Il modo di stare davanti alla distruzione della famiglia non è rincorrere la confusione, ma avere uno sguardo lucido e coraggioso che taglia corto con certe complicazioni introdotte ad arte (e la prima, più grossa complicazione fu il divorzio), riscoprendo perché vale la pena mettersi insieme tra uomo e donna, promettersi fedeltà, condividere un progetto stabile di vita e non soltanto una passeggera comodità. Dire che la famiglia “è una realtà accomunante, popolare, laica, non ideologica, che riguarda la vita di milioni di uomini” è scoprire l’acqua calda.

Altrettanto banale è affermare che “non può essere ridotta né a una realtà confessionale, né alle posizioni demagogiche e semplificatorie assunte da certe forze politiche”. Chi scrive queste cose, evidentemente, non solo non ha partecipato al Family Day, ma nemmeno si sarà degnato di vederlo in televisione! Probabilmente erano affaccendati a sintonizzarsi su Piazza Navona. Ma che altro dicevano le famiglie, con il loro solo esserci in Piazza San Giovanni, se non affermare questa realtà “accomunante, popolare, laica”? Perché mai alla manifestazione (mai nominata) hanno partecipato anche degli agnostici (sprezzantemente definiti “teocon” o “atei devoti” dai campioni del pensiero “tollerante”), degli evangelici, persino famiglie musulmane (per esperienza diretta posso dirti quanto grave scandalo dà il nostro modo di vivere scristianizzato anche alle famiglie degli islamici più moderati)? Più accomunante di così…

La critica alle posizioni demagogiche e semplificatorie di certe forze politiche si può condividere, a patto di tenere presente che almeno loro si sono fatte carico del problema, hanno colto un disagio e un’emarginazione che altre forze politiche o hanno ignorato o peggio ancora hanno favorito. Sta a noi cattolici non farci strumentalizzare. Quando poi si parla di crisi, mi sembra che il documento consideri la famiglia quasi come parte del problema, un soggetto passivo del quale gravare lo stato assistenziale, non come una risorsa che svolge un compito prezioso e insostituibile (e fa anche risparmiare denaro pubblico, tra l’altro).

Ma adesso viene il magistrale colpo di coda, lo stravolgimento del linguaggio e del pensiero tipico di certo pensiero “cattoprogressista”: “crisi che va considerata non come un male, ma come un’epocale possibilità di crescita e di cambiamento nella prospettiva della crescita dei diritti e della dignità delle persone”. Mi sembra questo il cuore del massaggio, il crocevia dove si danno appuntamento tutti i luoghi comuni del cattocomunismo. Tale pensiero, prima di tutto, proiettandosi in un futuro utopico, considera sbagliato e negativo tutto ciò che proviene dal passato, nell’illusione inconfessata di riuscire a padroneggiare il cambiamento (e invece finisce per accodarsi al cieco divenire della storia, come vedremo).

Ma nella storia è avvenuto più di una volta che una crisi non governata abbia portato distruzione, non rinnovamento. Un’eredità spirituale può venire stoltamente dissipata, un modo di vivere umano e civile può andare perso. Le invasioni barbariche furono forse un’epocale possibilità di crescita per la cristianità medievale… circa cinquecento anni dopo. Ma è probabile che le generazioni che quella crisi dovettero attraversare non ne fossero particolarmente contente, alle prese con guerre, saccheggi, epidemie, razzie e crollo di ogni legge.

Che significa poi “crescita dei diritti e della dignità delle persone”, se non, in questo contesto, riaprire surrettiziamente il discorso sui DI.CO.? Anche la premiata ditta Bindi & Pollastrini parlava esattamente lo stesso linguaggio quando ha presentato la sua proposta di legge. Ma è giusto dare diritti a chi, per definizione, non vuole assumersi nessun dovere? E’ più dignitoso chi s’impegna seriamente col matrimonio davanti agli uomini (non scomodiamo la cerimonia religiosa), oppure normare la precarietà, il disimpegno, l’incapacità di costruire il futuro? Non facciamoci un alibi della “complessità” dei problemi, per favore, perché centinaia di generazioni hanno dovuto affrontare problemi altrettanto complessi, se non di più, e hanno retto!

La parola “pluralismo” anche qui mi sembra usata in un contesto ambiguo. La famiglia è pluralista certamente al proprio interno, perché è l’unità di vissuti profondamente diversi quali quello maschile, femminile e dei figli. Ma il termine “pluralismo” può essere usato in due modi scorretti. Il primo, quando pensiamo alla famiglia come a una specie di assemblea sessantottarda, dove ognuno rivendica i propri “diritti” anche a spese degli altri. Il secondo, peggiore, quando si vuole indicare la “pluralità” delle pseudo-famiglie (“matrimoni” gay inclusi?). E se qui il termine è stato usato in questo modo, stona più che mai il richiamo ai documenti del Concilio Vaticano II, di cui qualcuno, evidentemente, pensa di essere l’unico interprete autorizzato.

La scelta veramente coraggiosa del nostro tempo non sta tanto e solo negli stili di vita compatibili ed equo solidali (detto brutalmente: non è perché riciclo la carta che andrò in paradiso, eppure io lo faccio sempre! Sul ritorno del fariseismo dovrei scrivere una lettera a parte), ma nel fatto stesso di fare famiglia, con tutti gli ostacoli culturali, i pregiudizi, la pubblicità negativa da parte dei mass-media, l’iniqua pressione fiscale che penalizza chi si sposa e vuole avere figli (spesso i conviventi hanno la precedenza nell’assegnazione delle case rispetto alle famiglie, appunto perché “deboli”). Che significa poi “apertura alla diversità”, se non, per l’ennesima volta, voler introdurre di soppiatto quel che non si ha il coraggio di affermare chiaro e tondo?

Sulla disponibilità all’affido familiare e all’adozione i cattolici, anche quelli più “reazionari” non hanno bisogno di lezioni da nessuno. Da CL, ad esempio, è nata l’associazione “Famiglie per l’accoglienza” che però non somigliano alla famiglia “modello ‘68”: sono famiglie dove, nella povertà del proprio limite, si cerca di voler bene e basta, e non ci vuole certo CL per fare questo.

Giusta la critica ai modelli economici iperliberistici, ma non ci si domanda se non sia altrettanto ingiusto il modello dell’”individualismo garantito” che si vuole oggi imporre, dove lo stato (cioè noi, i contribuenti) deve farsi carico di situazioni che si vogliono deliberatamente mantenere precarie, dove si massimizza l’utile individuale (non necessariamente quello economico, ma quello edonistico sì) mentre le conseguenze negative vanno a scapito della collettività.

Concludendo sulla presentazione, vorrei fare un’osservazione che forse è sfuggita agli organizzatori della manifestazione: nel momento in cui hanno criticato –non a torto- la famiglia consumistica tipo “mulino bianco” (dove però c’erano un padre e una madre) non si sono accorti che con la loro immagine di famiglia “non patriarcale, ma aperta, generosa, critica, accogliente, interculturale, multietnica e, perciò stesso, laica e democratica” hanno tracciato un ritratto sorprendentemente simile a un’immagine di famiglia non meno artificiosa e melensa: quella del “Medico in Famiglia” di Lino Banfi, dove il padre e la madre sono assenti (lei è morta, il padre si scarica la coscienza col volontariato, lontano dai figli), dove ognuno, in nome dei “buoni sentimenti”, in fondo fa quel che gli pare e piace. E risparmio al lettore l’altra “famiglia” alla quale Banfi, che ostenta la sua devozione a Padre Pio, si è tanto generosamente prestato: quella del “padre delle spose”. A proposito: una famiglia dove tutti sono tanto impegnati a essere aperti-generosi-critici-accoglienti-interculturali-multietnici, troverà o no il tempo di volersi bene?

Sulla brochure valgono grosso modo le osservazioni che ho fatto per il manifesto: le riserve sul considerare il mutamento sempre e comunque un bene, ad esempio. Ma vorrei anche qui approfondire alcuni punti, perché qui il linguaggio è più sottile e forse per questo anche più insidioso.

La famiglia è soltanto “una rassicurazione”? Dico provocatoriamente: perché scandalizzarcene? Il mondo intorno a noi non è soltanto un giardino equosolidale: c’è effettivamente il bisogno di essere rassicurati da qualcuno che ci conosce e ci accetta. Ripenso alla mia unica storia d’amore con una bellissima ragazza di Bari che poi divenne suora. Cominciavamo a fare i primi timidi progetti matrimoniali, e io pensavo: “sulla panchina possono andare tutti, al bar ti accolgono per quello che paghi, ma solo in casa ti accolgono per quello che sei”. E’ tanto scandaloso, tanto egoista rifugiarsi tra le braccia di chi ti vuol bene? O non è piuttosto da lì che si trova il coraggio di ripartire, di ricostruirsi e di andare avanti, piuttosto che in cento discorsi sulla solidarietà universale? La famiglia, sotto questo aspetto, è l’organizzazione più anti-totalitaria che esista, anti-totalitaria persino nei confronti del buonismo dominante, perché nasce, o almeno si mantiene, con una simpatia umana, con una voglia di condividere che non è dettata dallo stato o dai valori o dalla collettività, ma che proviene direttamente dall’io delle persone coinvolte. Non per nulla tutti i totalitarismi e tutte le utopie l’hanno sempre combattuta, perché crea legami originari, che lo stato o l’utopia non possono né creare né controllare. Non per niente, in “1984” di George Orwell, la rivolta del protagonista contro il Partito passa attraverso una semplice storia d’amore, e questo atto deve essere pagato con la vita.

Tornando a noi: dobbiamo inseguire a ogni costo una “complessità” spesso creata artificialmente, o piuttosto avere il coraggio di essere semplici, dire pane al pane e vino al vino? Si ha crescita e maturazione quando si va all’essenziale, non quando ci si perde in elucubrazioni artificiose.

Ho letto gli estratti dei documenti conciliari. Ma questi non contrastano, né mai hanno contrastato, col Magistero della Chiesa, anzi sono essi stessi Magistero! Chi cerca di manipolarli per far passare la sua visione ideologica si assume delle responsabilità estremamente gravi. Un solo brano potrebbe dare adito a qualche perplessità, la Gaudium et Spes n.75 ([i cristiani] devono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali… ecc.), ma si supera subito quando si pensa che i cristiani devono sì rispettare i punti di vista altrui, ma da nessuna parte è scritto che debbano supinamente accodarcisi. Anzi, quando tali punti di vista contrastino radicalmente e deliberatamente con il modo di vivere proposto dal Vangelo e dalla Chiesa, hanno il dovere di far sentire –anche qui civilmente- il proprio dissenso. Le parole del Concilio non possono certo fare da alibi a chi si è scomodato per inviare proiettili a Mons. Bagnasco e per insultare tanto pesantemente il Papa.

Che devo pensare, infine, delle numerose e pesanti citazioni del Card. Martini, se non che lo hanno citato maliziosamente fuori contesto, oppure che la mia impressione negativa su certi maestri esce più che confermata? Ha ragione il Cardinale a contestare il “familismo”, è vero che alla luce del Vangelo la famiglia non è “tutto”, ma la famiglia si trascende in nome di una realtà più alta e più esigente (il celibato per il Regno di Dio), non in nome di una misura tanto più bassa e accomodante quale i DI.CO.!

Sono poi profondamente contrario a usare il termine “famiglia tradizionale”. C’è la famiglia. Punto, chiuso. Il resto è triste scimmiottatura. Dobbiamo stare attenti a non cadere in queste banali trappole semantiche. E’ vero che la famiglia non deve appoggiarsi unicamente sulla tradizione, ma anche qui mi viene in aiuto la mia esperienza personale: quando vivevo felicemente l’affetto con la mia ragazza, ero tanto più contento perché sapevo di continuare una storia antica e bella quanto il mondo. Ci amavamo come avevano amato milioni di uomini e di donne prima di noi, e non ci sentivamo certamente vecchi e sorpassati per questo! Anzi, proprio questo sentimento di essere ancorati nel mondo, di non fare qualcosa di arbitrario ma di voluto da mille generazioni, ci rendeva la realtà fresca, nuova, non estranea e nemmeno arbitraria. Che un giovane sano e normale volesse bene a una ragazza sana e normale, che insieme cominciassero a pensare al futuro, questo era l’ordine delle cose, ed era profondamente bello. Tutto qui. Il resto è chiacchiera.

Infine, tutta l’ideologia di Martini viene fuori nel discorso di Gerusalemme del 16 marzo scorso, quando afferma: “Credo che la chiesa italiana debba dire cose che la gente capisce”. A parte il fatto che Papa Benedetto XVI lo ascoltano in 50.000 per volta, quindi forse qualcuno ci capisce qualcosa, secondo il Cardinale la Chiesa dovrebbe dire solo quello che alla gente piace sentirsi dire? La chiesa che ha in mente lui dovrebbe essere forse una specie di fast-food dello spirito, che per dare ragione a tutti non interessa più a nessuno. Un clone della Chiesa Anglicana, insomma, che ha detto sì all’aborto, si ai matrimoni e ai sacerdoti gay, si all’eutanasia, si agli esperimenti sugli embrioni, alla contraccezione, tutto questo per paura di non essere “al passo coi tempi”. Ma con questi “yes-men” Cristo c’entra più qualcosa?

Il Cardinale prega perché si raggiunga “quel livello di verità delle parole per cui tutti si sentano coinvolti”. Giustissimo, ma sentirsi coinvolti non basta. A un certo punto, e proprio attraverso il dialogo, si deve capire che è il momento di scegliere, che stare da una parte non è la stessa cosa che stare dall’altra. Il dialogo cristiano (un dialogo che, come giustamente ricorda lo stesso Cardinale, si fa prima di tutto con la vita) non è accademia, a un certo punto porta, nella libertà delle persone, o al cambiamento della vita o al rifiuto.

L’illusione pelagiana del Cardinale è credere che, se i cristiani “si comportano bene”, tutti automaticamente li accetteranno. Certamente per molti sarà così, ma proprio il modo di vivere coerentemente la fede non mancherà di suscitare irritazioni e avversione in chi, tra i laicisti, crede di essere norma a se stesso. Questo scontro non si potrà né evitare né attutire, e come dimostra la storia di questi ultimi due-tre anni, non sono stati i cristiani a cercarlo. Siamo un segno di contraddizione anche quando non lo vorremmo, non perché più bravi degli altri ma perché apparteniamo a qualcosa, o maglio a Qualcuno di diverso, molto diverso dalla mentalità che si cerca di far passare a tutti i costi.

Si è detto che il sonno della ragione genera mostri. Ma c’è un altro sonno, forse ancora più pericoloso, che genera mostri altrettanto spaventosi: il sonno della coscienza. Guardiamoci da coloro che la vogliono addormentare. Ho finito. Voglio anche dirti che ho inviato ad Avvenire la brochure e la presentazione del convegno. Questo mi provocherà quasi certamente dei nemici in Diocesi, anche se non sono abbastanza importante per dare fastidio a nessuno. Ma non potevo tacere. E’ tanto comodo farsi gli affari propri, ma qui ne va di ben altro che della mia tranquillità.

Cordiali saluti,
Giovanni Romano

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