mercoledì 8 agosto 2007

Ma cosa imparano gli animalisti dagli animali?


La tendenza a proiettare sugli animali i propri sentimenti, i propri atteggiamenti e i propri giudizi di valore è antica quanto l'uomo. In verità, la natura non offre "insegnamenti". Al contrario, la varietà estrema dei comportamenti riscontrabili nel mondo animale offrirebbe appigli a tutte le tesi. I monogami potrebbero addurre a esempio i pappagallini "inseparabili", gli omosessuali potrebbero replicare con il comportamento delle scimmie e delle iguane, i sostenitori della poliandria e del matriarcato potranno portare a esempio gli elefanti. I poligami, poi, avranno soltanto l'imbarazzo della scelta tra cervi, gorilla, foche, antilopi e ippopotami, per citare solo alcuni. Persino le perversioni più sinistre potrebbero trovare una giustificazione "naturale" se guardiamo a quello che fanno i ragni e le mantidi dopo l'accoppiamento. Per non parlare di specie come gli scorpioni che si rivoltano contro la prole se questa non è pronta a scappare il più presto possibile una volta terminato il periodo di allevamento.
L'unico comportamento che la natura sembra giustificare parrebbe proprio il relativismo. L'ambientalista, e in questo caso particolare l'animalista, sfugge però all'atteggiamento tradizionale di misurare gli uomini col metro degli animali (identificando i suoi vizi e le sue virtù con il loro comportamento, vedi Esopo e Fedro), e fa il contrario. Il suo giudizio è chiaramente formulato: approvazione incondizionata per tutto ciò che sono e fanno gli animali, disprezzo e avversione altrettanto incondizionati verso qualunque cosa sia riconducibile all'etichetta "uomo". La varietà dei comportamenti del mondo aninale non lo spinge a domandarsi se l'uomo sia qualcosa di qualitativamente diverso. Al contrario, se ne serve per dimostrare che l'uomo non è altro che un animale tra tanti, che la natura ha causalmente fornito di una certa percentuale di geni in più. In questa ottica, si capisce perfettamente l'osservazione del Professor Veronesi secondo cui l'uomo possiede soltanto il 2% scarso in più di geni rispetto alla scimmia platirrina a lui più simile, il bonobo.
Non importa che con quel 2% scarso l'uomo abbia scritto l'Odissea e il Mahabaharata, abbia scoperto la gravitazione universale e la teoria della relatività, abbia costruito le Piramidi e la Grande Muraglia, abbia previsto le eclissi e gli uragani, sia riuscito a guardare dallo spazio gli oceani per segnalare gli tsunami... siamo uguali alle scimmie, o meglio, le scimmie sono uguali a noi: è il relativismo, bellezza!
Quel che l'uomo ha realizzato, anzi, può essere considerato un'aberrazione, il prodotto di una inquietudine inspiegabile e molesta, che gli animali sono felicemente esentati dal provare. E' questo, anzi, il mondo che hanno in mente gli animalisti. Un mondo dove si vive senza la fatica di fare domande, dove la Necessità ha finalmente trionfato sulla scomoda Libertà e sull'ancora più scomoda Responsabilità, patrimonio esclusivo degli uomini.
Si rimprovera agli animalisti l'ipocrisia di strillare per la violazione dei "diritti" animali e di essere perfettamente indifferenti, quando non attivamente consenzienti, ai più biechi esperimenti genetici a danno dell'uomo (come nell'industria dei cosmetici: non un solo animalista ha avuto da ridire sulla soppressione o gli esperimenti sugli embioni e sui feti, purché gli animali venissero risparmiati). In realtà, il loro atteggiamento ha la profonda coerenza degli ottusi. Gli animali non si possono toccare perché, povere creature, non possono evitare di fare quel che fanno né di essere quello che sono. L'uomo invece è l'essere colpevole per definizione, "il cancro del pianeta", la creatura più ripugnante che esista perché è l'unica che ha la libertà di decidere, l'unica le cui azioni cerchino un significato.
L'ideale dell'animalista, l'unica cosa che sarebbe disposto a imparare dagli animali, è la supremazia assoluta dell'istinto e la rinuncia alla ragione. Sembra una filosofia da "figli dei fiori", e in gran parte lo è, pur con una differenza marginale in quel che riguarda la visione dei conflitti. Gli animalisti più sprovveduti non si differenzano dagli hippies nella loro visione da lotofagi di una Natura idillica e senza conflitti. Quelli un po' più smaliziati ammettono l'evidenza, e anche che tali conflitti siano necessari. Quello che vogliono togliere di mezzo, a livello umano, non è il conflitto (non c'è nulla che in natura suggerisca il pacifismo) ma il dolore, il rimorso e la colpa che accompagnano i conflitti umani. Si arriva così al sinistro paradosso per cui si afferma la casualità e la spietatezza della natura quando è l'uomo a essere in gioco, ma si abolisce alla radice qualsiasi idea di "diritto naturale".
Non parliamo, infine, del fatto che gli animalisti non sembrano essere particolarmente interessati agli aspetti del mondo animale che hanno particolarmente colpito le generazioni precedenti: la cura della prole, lo spirito di sacrificio e l'ingegnosità verso i loro piccoli, il coraggio o l'astuzia contro i predatori. Sono cose che non li toccano affatto. Grazie a loro, più che avvicinarci agli animali ci stiamo allontanando sempre più dall'uomo.
Giovanni Romano

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